Corea del Nord: una minaccia paravento

di Antonello Zecca

Il 9 ottobre scorso il regime nordcoreano avrebbe effettuato un test nucleare sotterraneo. La natura e l’eventuale successo di questo test sono ancora avvolti nell’ombra; infatti le rilevazioni relative a questo esperimento divergono notevolmente tra i diversi paesi che si sono adoperati per raccogliere dati subito dopo l’esplosione.

 

 

 

In ogni caso si può ragionevolmente affermare che, insuccesso o no, la Corea del Nord ha effettivamente sperimentato una bomba nucleare, sebbene apparentemente di media potenza. Ma il punto della questione non è questo. In realtà molto più che un problema di rapporti di forza meramente militari, e se vogliamo andare oltre la retorica superficiale della “Corea del Nord nuova minaccia globale”, si tratta qui di questioni squisitamente politiche, che coinvolgono altresì motivi economici e commerciali i cui attori sono molteplici e con interessi diversificati, ancorché talvolta convergenti. La posta in gioco è nientedimeno che il riassetto geopolitico complessivo della regione Asia-Pacifico, in cui Stati uniti e Cina giocano una partita decisiva per la sfida egemonica globale, senza dimenticare il Giappone, che rischia davvero di rappresentare la novità più problematica in questo scenario.

 

AI LIMITI DELLA SOPRAVVIVENZA

La Corea del Nord è uno stato di cui si conosce molto poco. Nelle campagne si concentra la gravissima crisi economica e sociale, che ha peraltro ricadute pesantissime sull’approvvigionamento alimentare della popolazione contadina. La condizione attuale delle campagne nordcoreane affonda le proprie radici nella politica seguita dai dirigenti del Partito del lavoro sin dagli anni Sessanta. Infatti i tre principi fondamentali di quello che sarebbe poi diventato un vero e proprio corpo dottrinario, forte elemento di coesione della burocrazia dominante ed elemento ausiliario di perpetuazione della casta ereditaria della famiglia Kim, è così riassumibile: “indipendenza nel campo politico”, “autosufficienza nel campo economico”, “autodifesa nel campo militare”.

Dopo un balzo economico iniziale dovuto allo sviluppo di una forte industria pesante, così come stabilito dal Piano quinquennale (1956-1961), la Corea ha visto un rapido e costante declino, seppur con parentesi di relativa stabilità. Infatti sebbene i piani quinquennali, sui modelli sovietico e cinese, avessero come scopo l’assicurazione dell’indipendenza politica dai due ingombranti vicini, la taglia ridotta dell’economia nazionale, la necessità di ottenere materie prime a condizioni di favore, la centralità accordata all’industria pesante e militare a detrimento dell’industria leggera e dell’agricoltura, e, last but not least, l’assenza di una qualsiasi partecipazione popolare dal basso nelle scelte macroeconomiche di fondo accoppiata a metodi di gestione inefficienti e inefficaci hanno reso la Corea del Nord lo stato più dipendente da aiuti stranieri, soprattutto in campo alimentare. Nel paese infatti si sono ripetute numerose emergenze alimentari, soprattutto nelle campagne, alcune delle quali sfociate in vere e proprie carestie, come quella alla metà degli anni Novanta che, si stima, ha causato due milioni di morti.

 

Fragile burocrazia e salda militarizzazione

La Corea del Nord ha sempre avuto una burocrazia dominante molto fragile, sottoposta alle pressioni non solo della Corea del Sud e degli Usa, ma anche dei suoi “fraterni” vicini, da cui pure ha dovuto costantemente guardarsi per preservare la continuità della sua “discendenza”, soprattutto a fronte di un’estrema e drammatica fragilità interna sul piano politico, economico e sociale. Alle crescenti sfide alla propria integrità politica e di dominio la burocrazia nordcoreana, rappresentata prima da Kim Il Sung, poi da Kim Jong Il, ha risposto con la scelta della supremazia delle armi, proponendosi una salda militarizzazione della società (basti vedere il ruolo dell’esercito nella vita ufficiale e nell’ideologia di stato) e, naturalmente, della sua politica estera.

Ma è possibile vedere in tutto questo una reale minaccia per altri paesi? È possibile scorgervi il riflesso di un’attitudine offensiva, o non è piuttosto il riflesso di una condizione drammatica e ai limiti della sopravvivenza in cui tutto il paese è immerso?

 

STORICHE DIFFIDENZE

Da quanto detto pur sommariamente emerge che l’opzione nucleare nasce fondamentalmente dalla sensazione di minaccia costante e di accerchiamento provata dalla burocrazia dominante del paese. Ciò non vuol certo giustificare lo sviluppo di programmi nucleari, quali che siano, ma serve per comprendere i motivi soggiacenti alcune scelte politiche e politico-militari e soprattutto la perdurante ipocrisia delle grandi potenze globali, che fanno di tutto pur di preservare i propri interessi imperiali (gli Usa) o quelli legati al proprio ruolo di potenza regionale emergente (la Cina) o aspiranti tali (il Giappone), il tutto senza rinunciare al nucleare, anzi facendone talvolta una delle architravi della propria strategia.

A tale scopo sarà opportuno fare qualche passo indietro, anche per capire come sia più plausibile pensare che la Corea del Nord usi la minaccia nucleare come paravento dietro cui nascondere la richiesta di maggiore considerazione internazionale per lo stato in cui versa il paese, da un lato, e come elemento di pressione per un ritorno al tavolo negoziale, dall’altro.

Quest’ultimo è uno dei punti chiave per comprendere l’atteggiamento della burocrazia nordcoreana. Dal 27 al 29 agosto 2003 aveva infatti avuto inizio il primo round di colloqui multilaterali, poi denominato Six Party Talks (“colloqui a sei”) per la risoluzione del problema nucleare, che avrebbe visto in seguito altri quattro round, due nel 2004 e altrettanti nel 2005.

Tenutosi a Pechino (come in seguito gli altri), aveva visto la partecipazione di Stati uniti, Russia, Cina, Giappone, Corea del Sud e naturalmente Corea del Nord. Le relazioni bilaterali tra Corea del Nord e Stati Uniti avevano fino ad allora visto l’alternanza di periodi di apertura, parziale, e di chiusura, rendendo la Corea del Nord sempre più diffidente delle reali intenzioni Usa nella regione, fino ad arrivare a un’esacerbazione delle relazioni con l’amministrazione Bush.

Poiché il vero problema del governo nordcoreano sono sempre stati gli Usa, Kim Jong Il avrebbe preferito di gran lunga che il tavolo del negoziato fosse stato bilaterale, senza il coinvolgimento di paesi “terzi”, che avrebbero reso certo più tortuoso il percorso e meno agevole una possibile soluzione, tenuto conto dell’intreccio di interessi e di scontri che si sarebbe ripresentato anche in occasione di quel tavolo.

 

I COLLOQUI A SEI

In effetti l’andamento dei colloqui a sei ha dato conferma della presenza di almeno due diversi schieramenti, Russia e Cina da un lato (un’alleanza che si va consolidando), Stati uniti e Giappone dall’altro (un’alleanza storica che si va rafforzando), che hanno utilizzato il problema nordcoreano in chiave geopolitica, così da provare a regolare difficili rapporti internazionali intercorrenti tra i due schieramenti alla luce di diversi dossier pregni di contraddizioni, che hanno agito da convitati di pietra: rivalità petrolifere tra Cina e Giappone, problema di Taiwan, costituzione di un’area di libero scambio in Asia (Asean), le ambizioni neomilitariste giapponesi e la situazione statunitense nel pacifico e in Asia orientale luogo di future contraddizioni decisive per l’egemonia a livello globale, a detta di molti .

Stante la quantità e la qualità dei problemi in campo era ovvio che nessuno avesse la reale intenzione di trovare una soluzione che andasse a vantaggio del popolo coreano, oppresso da una dittatura totalitaria in patria e campo di battaglia per le ambizioni delle grandi potenze imperialiste (o aspiranti tali) nella regione, come d’altronde avviene almeno sin dalla guerra di Corea. Così, tra un regime alle strette in preda a un panico da potenziale perdita di potere e incapace di proporre una via d’uscita praticabile per il popolo nordcoreano e il gioco geopolitico di Cina, Russia, Giappone e Stati uniti, i colloqui a sei non hanno prodotto che generiche dichiarazioni di intenti: la Corea del Nord dovrà interrompere immediatamente i suoi progetti di costruzione di armi atomiche, gli Stati uniti si impegnano a rispettarne la sovranità e a non progettare di attaccarla con armi nucleari o convenzionali, tutti i paesi coinvolti si impegnano a non interrompere la fornitura di energia e alimentare alla Corea del Nord. Questi sono i punti contenuti nella dichiarazione congiunta sottoscritta il 19 settembre 2005 dai rappresentanti dei sei paesi e ripresa nell’ultimo round l’11 novembre 2005.

 

CHI HA DIRITTO ALLA BOMBA?

Bisogna però fare grossa attenzione all’ordine delle richieste: infatti tutte le azioni sottoscritte nella dichiarazione congiunta sarebbero state operative solo in seguito all’abbandono del programma nucleare della Corea del Nord che, dal canto suo, avrebbe voluto atti reali e concreti che la convincessero a interrompere i suoi progetti nucleari. Non fidandosi degli Stati uniti, il 2 febbraio 2005 annunciava di possedere la bomba, fornendo il pretesto per l’interruzione dei colloqui.

Nel frattempo, durante i diversi round, la situazione si è andata ingarbugliando sempre di più, con la questione del rapimento di cittadini giapponesi durante gli anni Settanta ad opera di agenti dei servizi nordcoreani, le ambizioni militariste del Giappone che procedono spedite con la ormai imminente revisione dell’articolo 9 della costituzione giapponese (quella che, nelle interpretazioni più radicali, proibirebbe addirittura l’esercito), con una rinnovata aggressività ideologica di legittimazione del suo passato imperiale, con il dibattito ormai senza veli nell’ambito della leadership politica nipponica sulla necessità di dotarsi dell’arma nucleare.

Tutto questo però pare non destare scalpore nella comunità internazionale, a parte qualche “preoccupazione”, come non pare destare scalpore il fatto che le grandi potenze (imperialiste e non) hanno bellamente fatto strame dei trattati internazionali sulla limitazione e la riduzione dell’armamento nucleare con stratagemmi degni del migliore illusionista. Basti citare il fatto che il 24 maggio 2002 con il nuovo trattato Sort Stati uniti e Russia si sono impegnati a ridurre il numero totale del rispettivo arsenale nucleare senza però precisare che la sperimentazione di armi nucleari di nuova generazione procede spedita e che la “riduzione totale” verrà effettuata sulle armi considerate ormai obsolete e inadatte al nuovo concetto strategico della guerra globale permanente e preventiva.

Una vera e propria razionalizzazione dell’arsenale esistente, insomma, che in molti casi sfrutta la produzione di materiale collaterale del nucleare “civile” per la sperimentazione militare. Non solo in questo modo non si va in direzione del disarmo, ma aumenta la proliferazione nucleare, giacché pare che per essere ascoltati bisogna possedere ordigni altamente distruttivi. L’opzione nucleare nasce fondamentalmente dalla sensazione di minaccia costante e di accerchiamento provata dalla burocrazia dominante del paese. Un disarmo reale non può che passare per lo smantellamento degli arsenali nucleari, di vecchia e nuova generazione, in primo luogo da parte delle grandi potenze, altrimenti nessun disarmo generalizzato sarà posto in essere.

 

INTRECCI DI INTERESSI

Per quanto riguarda la Corea del Nord e gli sviluppi possibili della situazione che si è venuta a creare dallo scorso ottobre, la prevedibile reazione di Stati uniti, Giappone (a cui non deve essere parsa vera l’apparente idiozia dei dirigenti nordcoreani) e Cina (preoccupata di una destabilizzazione, anche soft, dell’area che non gioverebbe a un paese in preda a numerosi problemi irrisolti, soprattutto in chiave interna) e la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 14 ottobre 2006 pongono altrettanti problemi di quanti non pensino di risolvere. In particolare quest’ultimo, oltre le prevedibili condanne di prammatica, si limita a registrare uno stallo nei rapporti di forza delle potenze componenti il Consiglio stesso, con l’auspicio di ritornare allo status quo ante dei colloqui a sei, senza aver prima risolto i problemi cui abbiamo accennato sopra. L’unico elemento che ha destato qualche preoccupazione è la clausola f del paragrafo 8 in cui si dà la possibilità di effettuare ispezioni su navi battenti bandiera nordcoreana. La Corea del Nord ha rifiutato seccamente questo paragrafo, aggiungendo che qualunque sorta di ispezione sarà considerata un atto di guerra e come tale trattato, tanto è vero che ci sono grosse perplessità rispetto alla possibilità di provocare un ulteriore aumento della temperatura in una fase già di per sé estremamente delicata. Sebbene c’è chi, ad esempio il Giappone, non toglie occasione all’escalation della tensione, avendo affermato di voler effettuare comunque queste ispezioni. Inoltre non bisogna dimenticare che il Paese del sol levante ha già confiscato i beni legati alle organizzazioni nordcoreane presenti nel paese e sta discutendo se sospendere gli aiuti alimentari. È evidente come anche per la classe dirigente giapponese la Corea del Nord sia mera funzione del proprio progetto di rilancio militare. Un aumento della tensione nell’area non potrebbe che giovare a questo percorso, rendendo inoltre i cittadini giapponesi molto più esposti e vulnerabili alla propaganda nazionalista e securitaria.

 

In realtà la risoluzione avrebbe potuto essere anche molto più dura, se si pensa che inizialmente era stata presa in considerazione la possibilità del ricorso all’uso della forza (richiesta in prima battuta da Stati uniti e Giappone), come da articolo 41 della Carta delle Nazioni unite. Tuttavia la Cina non avrebbe potuto accettare una situazione simile, con un rischio elevatissimo di destabilizzazione di tutta l’area, e con il rischio ancora più concreto di un’immigrazione di massa dal vicino nordcoreano difficilissima da gestire.

 

Allo stato dell’arte la situazione è aperta a molteplici scenari, difficilmente prevedibili. Molto dipenderà dalla volontà degli stati implicati in prima persona di risolvere la crisi avendo come primo obiettivo la preoccupazione di livelli di vita accettabili per il popolo coreano e la prevenzione di possibili escalation militari (difficile da pensare?). Dal canto suo, difficilmente la Corea del Nord potrebbe far ricorso al first strike, ben sapendo che andrebbe incontro a una distruzione assicurata, e con essa la sua burocrazia dominante. Ciò detto non è però, ahinoi, escludibile a priori che, sottoposti a una crisi senza via d’uscita per la loro salvezza, i dirigenti nordcoreani possano decidere di giocare tutte le loro carte. A quel punto è purtroppo facile immaginare cosa potrebbe accadere.

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